Le aziende più inclusive migliorano in organizzazione e competitività

Le aziende più inclusive fanno passi da gigante nell’organizzazione, migliorando di fatto la vita di tutti i propri dipendenti; ottengono vantaggi nei percorsi di internazionalizzazione e nelle strategie commerciali. In poche parole, aumentano la propria competitività. Questo è quanto dimostra, tra le altre cose, lo studio “Una macchina in moto col freno tirato. La valorizzazione dei migranti nelle organizzazioni di lavoro”, condotto in Lombardia, Emilia Romagna, Piemonte, Veneto e Puglia, nell’ambito del progetto «DimiCome» (Diversity management e integrazione. Competenze dei migranti nel mercato del lavoro), realizzato da Fondazione Ismu e co-finanziato dal Fami, Fondo asilo, migrazione e integrazione.

A essere prese in esame sono state oltre 60 aziende, che hanno compiuto la scelta precisa di puntare sulla diversità come elemento di forza, operando in settori economici differenti. L’iniziativa ha portato gli organizzatori alla raccolta e alla sintesi di percorsi di gestione della diversity intrapresi sia da grandi società appartenenti a gruppi multinazionali, sia da piccole e medie imprese.

Come è facile immaginare, mentre per le prime la gestione dell’inclusione è molto diffusa, per le seconde rappresenta una strada molto meno percorsa. “Mentre le multinazionali contemplano la diversity per i profili superspecialistici – racconta a Il Sole 24 Ore Laura Zanfrini, responsabile del settore Economia e Lavoro della Fondazione Ismu – per le nostre aziende questo approccio opera su profili meno specializzati, acquistando per questo ancora più importanza. Si delinea quasi una diversity all’italiana – continua – in cui queste pratiche hanno spesso un forte ancoraggio al territorio di appartenenza dell’azienda, o meglio hanno ricadute su questo”.

Tra quelli che emergono, un dato che genera ampia fiducia dimostra quanto le buone pratiche messe in campo a favore dell’integrazione dei lavoratori stranieri influiscano positivamente anche sugli altri. “avorare sull’inclusione di persone vulnerabili, come sono spesso i migranti, con percorsi di vita e di lavoro ‘interrotti’ – spiega ancora la dottoressa Zanfrini – può aiutare le aziende a mettere in campo buone pratiche che si riversano sulla generalità dei lavoratori: pensiamo a come facilitare i rientri da periodi di maternità o di malattia”.

Sono circa otto milioni le persone presenti sul territorio italiano con alle spalle un background migratorio. A questo dato si arriva infatti sommando i 5,9 milioni di stranieri residenti in Italia, tra regolari e irregolari, e gli oltre 1,6 milioni di uomini e donne che hanno acquisito la cittadinanza italiana. Soltanto due milioni e mezzo di questi individui lavora assunto regolarmente: esiste dunque un’alta percentuale di lavoro sommerso.

“Se consideriamo l’andamento demografico del nostro Paese – aggiunge Laura Zanfrini – appare evidente che nei prossimi anni la presenza di lavoratori che hanno un background straniero, immigrati di prima e seconda generazione, sarà sempre più significativa. I destini umani e professionali di questi individui si intrecceranno sempre di più con lo sviluppo economico e con la società. Ecco allora che la gestione della diversity non sarà più un tema per addetti ai lavori ma riguarderà la competitività del Paese e del sistema produttivo nel suo complesso”.

Secondo i curatori del progetto “DimiCome”, il ruolo delle aziende nella valorizzazione delle competenze e nella formazione dei migranti può essere fondamentale per abbattere definitivamente il fenomeno della complementarietà, quello per cui vanno a ricoprire mansioni caratterizzate da difficoltà di reclutamento, per le condizioni di lavoro e retributive e per il basso livello di prestigio sociale, senza mai entrare in competizione con i lavoratori nazionali.

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